Jude Law: «La santa bellezza» (2023)

Il Papa è nudo sotto la doccia. Il Papa si infila un paio di ciabattine di gomma bianche. Il Papa fuma e beve Cherry Cola. Sprezzante e misterioso, circondato da pochi amici e molti nemici, questo Papa più figo di una star di Hollywood ha, giustamente, la faccia di Jude Law. Nella serie The Young Pope scritta e diretta da Paolo Sorrentino, in onda dal 21 ottobre su Sky Atlantic e presentata in anteprima alla Mostra di Venezia, l’attore occupa lo schermo in tutto il suo consapevole splendore. Nell’invenzione fantastorica del regista, il corpo e la faccia di Jude Law sono forma e sostanza insieme, tanta irresistibile bellezza è il cuore di questo film in dieci puntate. E Jude non perde il carisma nemmeno in versione terrena, in jeans neri e cardigan blu, quando me lo trovo davanti per questa intervista. Ha uno sguardo limpido, da ragazzino, abbinato alla voce più sexy dell’Occidente, combinazione letale che lo ha portato ad avere una mirabolante vita da rubacuori ben documentata da paparazzi e tabloid. Tre figli dalla moglie Sadie Frost, una lunga relazione con Sienna Miller, lo scandalo per averla tradita con la babysitter dei figli, altri due figli nati quando la relazione con le madri era già finita, Law è stato anche una delle vittime delle intercettazioni di News of the World. Ha fatto causa ed è stato risarcito (si parla di 130 mila sterline), da circa un anno esce con una nuova ragazza, Phillipa Coan, ma la stampa specializzata se ne occupa meno di quanto avrebbe fatto un tempo. Forse Jude è entrato in una nuova fase, più tranquilla, e se vi sembra che 43 anni siano troppo pochi per pacificarsi, ricordate che stiamo parlando di un uomo che ha tagliato molti traguardi precocemente. Attore di teatro e Tv fin da quando aveva 17 anni, vincitore di premi già a 22, padre per la prima volta a 23, due nomination agli Oscar (Il talento di Mr. Ripley e Ritorno a Cold Mountain), sa fare Shakespeare a teatro e il dottor Watson al cinema in Sherlock Holmes. È pure spiritoso, dice: «Dopo avere girato King Arthur (in uscita a marzo, ndr), tutto il tempo con la corona in testa, ho cominciato a fare il Papa. Il mio ego si è molto ringalluzzito. Purtroppo ho toccato l’apice, d’ora in poi posso solo scendere, sarà durissima».

Vive immerso nel mondo dello spettacolo da sempre, è appassionato e attento, quindi non poteva non arrivare anche lui nel nuovo, effervescente universo della Tv d’autore, di cui The Young Pope è una gemma. Progetto internazionale nato in casa Sky, ha coinvolto alcune tra le principali case di produzione europee e americane, porta la firma del nostro premio Oscar ed è da qui che abbiamo cominciato la nostra conversazione.

Dove e quando ha conosciuto Paolo Sorrentino?
«A Cannes, qualche anno fa, io ero in giuria. Una sera chiacchieravo con Sean Penn, che è un mio amico, e accanto a lui c’era questo altro tizio. Sean parlava, a turno, un po’ con me un po’ con lui. Gli ho chiesto chi fosse e lui me lo presenta. E io faccio wow, Le conseguenze dell’amore è il mio film preferito! Ho pensato subito che avrei voluto lavorare con lui, e finalmente l’occasione è arrivata. La sceneggiatura di The Young Pope, un allineamento fortunato di pianeti».

Ritorna in televisione, dove aveva debuttato da ragazzino.
«E che poi non ho più voluto fare per un bel po’. Snobismo da una parte, dall’altra la Tv degli anni Ottanta e Novanta mica era quella di oggi. E il cinema di qualità è sempre più difficile da finanziare. I 200 milioni di dollari per i supereroi si trovano subito, i 5 per un piccolo film non te li dà nessuno. Viva la Tv. Tanto, l’importante è il contenuto, non il mezzo».

In alcuni film, tipo Dom Hemingway, si è volutamente imbruttito, in The Young Pope è più bello che mai.
«Ah, sì? Molto bene! (ride). Tutto merito di Paolo».

Anche della genetica.
«Ho passato i miei venti e trent’anni a combattere contro me stesso, mi dava fastidio essere considerato una faccia carina perché lo vedevo come un limite al giudizio sul mio lavoro. Adesso, dopo i quaranta, quando la bellezza comincia a scomparire, i complimenti fanno piacere. Comunque, il personaggio del giovane Papa è interessante da questo punto di vista. Perché è un narciso di mente fredda, che usa il suo aspetto come strumento di potere e manipolazione. È un uomo intelligente, profondamente spirituale eppure consapevole, dice al mondo: sono bello, guardatemi».

Si è ispirato a qualche Papa vero o a qualche Papa visto al cinema?
«Un po’ alla gestualità di Pio XII, ma in gran parte è tutta una creazione originale. In particolare, quel movimento di allargare le braccia nel salutare la folla, Paolo me lo ha fatto rubare a Wayne Rooney, il calciatore, che fa così quando segna».

Ha vissuto a Roma otto mesi, com’è andata?
«Sono stato felice, ispirato, ho goduto ogni momento. Stavo in un appartamento vicino al Campidoglio, andavo a correre ogni mattina intorno al Circo Massimo. Ho visto la città alle cinque di mattina, assieme agli spazzini, bevuto il caffè al bar con i camionisti. Ho adorato il ritmo di Roma, indaffarata ma meno frenetica di Londra, cosmopolita ma meno tesa di New York. È facile da girare e ogni passeggiata è miracolosa. Tu cammini chiacchierando con qualcuno, e a un certo punto, ecco, siamo alla Fontana di Trevi, oddio ma quello è il Vaticano. Pazzesco. Mi manca».

La cartolina del cuore?
«Sono arrivato fan del Bernini e sono partito fan di Borromini. C’è un piccolo bar da cui si vede un angolo di Sant’Ivo alla Sapienza, una cima barocca che sembra il ricciolo di panna sopra un gelato. Ho portato lì a bere un caffè chiunque mi sia venuto a trova- re in quei mesi».

Lei ha fatto tutto presto, nella vita. Come si sente in questa strana terra tra i 40 e i 50?
«Mi piace. Non mi sento né cinico né stanco, ma so di avere messo da parte un po’ di esperienze che mi rendono abbastanza saggio, ho maturato le mie convinzioni. È il momento giusto per fermarsi a riflettere su che cosa ho fatto e su che cosa voglio fare. La presenza dei miei figli mi stimola di continuo questi pensieri. Il primogenito ormai è grande, due sono teenager, parlo molto con loro: si fanno delle domande sul domani e finisce che me le faccio anch’io».

Il primogenito, Rafferty, ha 20 anni.
«Vuole diventare musicista ma ha acchiappato al volo qualche lavoro come modello per guadagnare un po’ di soldi in fretta. Io non dico niente, mi sta bene che sia indipendente e, se necessario, impari dai suoi errori, come abbiamo fatto tutti».

Prova mai nostalgia per il passato?
«Sì, per gli anni Settanta, quando ero bambino. Si viveva nel presente, senza pretese. Non ho, invece, un bel ricordo degli anni Ottanta, troppo patinati, un glamour finto basato sull’apparenza. Non ci si domandava chi siamo, ma chi potremmo essere».

Pensa che il suo talento sia stato offuscato dal clamore intorno alla sua vita privata?
«Moltissimo! (ride). Scherzo, non sono così presuntuoso. Però, seriamente: quando inizi a fare questo lavoro, vuoi che la gente ti stimi perché sei un bravo attore, è ovvio. Se una specie di tempesta folle altera la percezione che gli altri hanno di te, non sei contento, te la vivi male. Anche perché a me della vita privata altrui non importa nulla, sono ancora stupito che tanta gente si sia interessata alla mia».

Ultimamente, mi pare la lascino in pace.
«Hanno esaurito le cose da raccontare! Del resto, c’è un limite alla quantità di panni sporchi che può produrre un uomo. Dovranno andare a rovistare tra quelli di qualcun altro».

Un po’ di anni fa, quando ci siamo incontrati per un’altra intervista, lei stava per fare Amleto a teatro per la prima volta. Ricorda?
«Sì, certo. E forse lei ricorda il terrore nei miei occhi. Ero pieno di paure, in quel momento era la sfida più grande che potessi affrontare».

E adesso, quale potrebbe essere?
«Se parliamo di Shakespeare, ce n’è una per ogni decennio. Derek Jacobi, che è un grandissimo attore scespiriano, una volta mi ha detto che, per arrivare a Prospero della Tempesta, bisogna prima saltare dentro le caselle di Amleto, Macbeth, Re Lear...».

Vorrebbe diventare regista?
«Ci penso e ci ripenso, un po’ mi spaventa l’idea di assumermi troppe responsabilità, un po’ ricordo una cosa che mi ha raccontato Mike Nichols. Una volta era su un set e stava dando un’intervista quando lo scenografo lo interruppe per chiedergli qualcosa a proposito di due cuscini quasi identici: vuoi questo o questo? Lui senza esitare ne indicò uno. Il giornalista si complimentò per la velocità, Nichols rispose: “Posso sempre cambiare idea, sono il regista”».

Com’era Nichols, con cui ha girato il capolavoro Closer?
«Non ti dava particolari indicazioni, piuttosto ti raccontava una storia. E tu ti chiedevi: ma perché mi racconta questo? Poi la storia ti entrava sotto la pelle e ti provocava dei pensieri, delle reazioni che erano esattamente quelle che lui voleva vedere sullo schermo. Aveva un senso dell’umorismo impagabile, volava leggero sul mondo e aveva una caratteristica che ho trovato anche in Sorrentino: rendeva il set un luogo familiare, dove tutti sono vitali, tutti sono inclusi. La capacità di collaborare è la chiave di ogni buon risultato».

Le piace la vita sul set?
«Da morire. Da sette mesi sono a casa e, per carità, ci sto benissimo e forse avevo anche bisogno di un momento di tranquillità domestica, però non vedo l’ora di tornare a lavorare».

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Author: Barbera Armstrong

Last Updated: 07/08/2023

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